Nel mondo della fotografia capita di frequente che le storie personali di grandi autori siano maturate su percorsi piuttosto tradizionali.
Il motivo è da ricondurre allo stretto legame di questa disciplina con gli ambiti lavorativi del settore. Basta pensare ai “colossi” dell’agenzia Magnum ed alle tante carriere nel reportage foto-giornalistico ma la cosa è valsa per molti altri.
Eppure ci sono sempre le eccezioni. Talvolta la fama ha conquistato il grande pubblico velocemente, in modo perfino dirompente. Ad innescarla sono state vicende dai toni drammatici e questa logica emozionale che colpisce i sensi prima ancora dell’intelletto costituisce purtroppo un paradigma nel mondo della comunicazione.
Un evento, una casualità, un dettaglio eccentrico dalle conseguenze macroscopiche possono suscitare una sorta di vertigine collettiva dagli effetti permanenti, un terremoto che può anche esulare dallo spessore effettivo dei contenuti tecnici.
STORIE DI AUTOSCATTI
Le fotografe Francesca Woodman e Vivian Maier, il cui talento peraltro non è in discussione, sono due esempi eclatanti di autori la cui celebrità ha risposto proprio a questa dinamica esplosiva.
Nel caso della giovane Woodman anche io, come tanti, non sono rimasto indifferente all’epilogo tragico della sua breve vita.
La studentessa americana, infatti, a lungo in Italia dove fece studi e conoscenze in campo artistico, è morta suicida a soli 22 anni dopo aver pubblicato il primo libro fotografico.
Allo sgomento per una morte così violenta si aggiunge quello per una coincidenza incomprensibile; non mi capacito di dover associare un traguardo così entusiasmante come un esordio editoriale ad una fine di questo genere.
Una crisi che emerge con vigore dagli scritti che ci ha lasciato, pensieri rivelatori di un disagio profondissimo:
«Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate»
Francesca ardeva fortemente, d’amore e di arte. Il suo bisogno di comunicare e di vedersi riconoscere un talento di cui era consapevole le è stato fatale.
Le molte delusioni in tal senso hanno minato tragicamente la sua fragilità e questo turbinio di emozioni contrastanti mi ha sempre toccato profondamente.
Adoro la spigliatezza con cui sperimentava tecniche e idee: una freschezza certamente legata alla giovane età ma che risulta ancora più interessante per una progettualità artistica già limpida.
Effettuava doppie esposizioni e lunghe pose mettendo in gioco il proprio corpo, emblema di una sensualità acerba e per questo ancora più vera.
La forza espressiva dei suoi scatti, inoltre, trovava ulteriore vigore nelle cornici dimesse che Francesca sceglieva per le ambientazioni: stanze spoglie, a volte fatiscenti, soluzioni a basso costo, certo, ma perfettamente funzionali al concept dell’immagine.
Non era una sprovveduta; aveva studiato approfonditamente tutto un filone storico di artisti legati a tematiche visionarie, surrealiste e oniriche. A cominciare dall’incisore tedesco Max Klinger, passando per il grande Man Ray e finendo con il fotografo connazionale Duane Michals, punto di riferimento esplicito di cui si coglie tutto l’influsso ispiratore.
Quando rivedo il primo autoscatto eseguito a soli 13 anni mi commuovo, si tocca con mano la sua urgenza espressiva ma anche l’inquietudine profonda che doveva animarla: si riprende con il volto coperto dai capelli e schiaccia il pulsante dell’otturatore aiutandosi con un bastone.
Un’immagine rappresentativa della sua tormentata consapevolezza artistica, immatura, è vero, ma già definita. Questo vedo-non vedo è un motivo ricorrente messo in pratica con una certa varietà di soluzioni: doppie esposizioni, come detto, effetto mosso, allestimenti resi interessanti da trovate geniali.
Gli autoscatti di Francesca Woodman sono lo specchio di un conflitto interiore. Sono tentativi di venire a capo di un IO irrisolto ma lucidissimo, al punto da mettersi fisicamente a nudo nell’atto di specchiarsi senza mai rivedere in modo nitido il riflesso della propria vita.
Chissà quali percorsi avrebbe intrapreso la sua sperimentazione con il passare degli anni e come avrebbe approcciato le nuove frontiere del digitale. Domande inutili perché il senso del percorso di Francesca è condensato nell’inadeguatezza del suo breve presente.
Gli autoscatti sono in assoluto i miei preferiti e potrei accostare anche lei a quella bellissima definizione che è stata data al celebre Arnold Newman. Anche la Woodman, secondo me, è una paesaggista dell’anima, ma diversamente dal maestro americano, lo ha fatto indagando esclusivamente la propria.
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