Con il precedente articolo ho voluto aprire una breve parentesi sul tema degli autoscatti attraverso la storia di due fotografe che adoro.
Francesca Woodman e Vivian Maier sono accomunate da una celebrità straordinaria che è divampata successivamente alla loro scomparsa. A fare breccia nel grande pubblico sono state le dolorose vicende personali che hanno anticipato clamorosamente la piena presa di coscienza delle loro opere.
Per questo motivo gli autoscatti costituiscono un affascinante portale di ingresso nel loro vissuto interiore da cui trapelano sensibilità e tormenti.
La Woodman, giovanissima studentessa americana di cui ho già parlato, si era fatta notare prestissimo negli ambienti artistici arrivando a pubblicare il primo libro a 22 anni, subito prima di togliersi la vita lanciandosi da un palazzo di New York.
Ci ha lasciato in eredità lo struggente resoconto di un dialogo interiore irrisolto, espresso con ruvido sperimentalismo e sensualità.
Vivian Maier, invece, è stata protagonista suo malgrado di una storia assai più monotona, scossa da un epilogo incredibile dopo la sua scomparsa.
Fece la bambinaia tra New York, Los Angeles e Chicago, fotografando nelle pause di lavoro, per anni e da sola, fino a morire indigente e nell’assoluto anonimato. Migliaia di scatti, raccolti per una vita intera e presumibilmente mai mostrati a nessuno, sono finiti in una cassetta andata all’asta con i pochi effetti personali.
Un fortunato acquirente, oggi notissimo, ha avuto il merito di capirne subito il valore e ne ha tratto per primo tutti i vantaggi lanciando il nome della Maier verso un’immediata fama planetaria. Troverete sul web innumerevoli articoli in merito e le fotografie stanno girando il mondo grazie a delle belle mostre.
L’aspetto che trovo più affascinante del suo talento e sul quale mi capita spesso di soffermarmi è l’approccio allo scatto. Questa donna dai caratteri quasi bizzarri e dall’aria triste, girava per le strade delle metropoli collezionando ritratti fantastici. Aveva talento, un certo occhio nel cogliere le occasioni giuste e riflessi da vero reporter.
La sua è una splendida collezione di volti, di espressioni, di pose, di personaggi eclettici che soddisfavano pienamente la sua curiosità.
Ma sono gli autoscatti a costituire la parte più intrigante della collezione. Trovo assolutamente irresistibile il contrasto tra la malinconica austerità del suo aspetto – complice un abbigliamento dimesso anche se distinto – e la vitalità del fotografare. Un connubio che tocca l’apice quando riprende sé stessa.
La Maier era una signora sola e timida, vagamente androgina, ma evidentemente la figura tutt’altro che gioviale nascondeva doti come intelligenza e sense of humour che, invece, trapelano chiaramente dalla sensibilità artistica.
E’ divertente notarne il compiacimento ogni qual volta si vedeva riflessa su una vetrina, su uno specchio, spesso con rimandi plurimi di grande effetto. Non era certo narcisismo, e la sua espressione dice tutto a riguardo, era piuttosto il piacere profondo di affermare la propria presenza in quel mondo vorticoso che le girava intorno.
Una lucidissima testimonianza sostenuta dalla profonda urgenza comunicativa.
Non è un caso che gli autoscatti siano universalmente riconosciuti come emblematici della sua testimonianza artistica. Sono le foto più celebri ed emozionanti. Si coglie da questi scatti ricorrenti tutta la solitudine, la voglia di comunicare e di essere corrisposta nel silenzio assordante di una comunità che la ignorava completamente.
Una donna a suo modo affascinante, stravagante, amata dai bambini e probabilmente guardata con distacco dagli adulti.
La sua è una storia toccante e sorprendente che oltre ad emozionare forse ci aiuta a capire il senso più profondo del fotografare: come qualcuno ha giustamente detto, non è solo quello di esprimersi ma l’esercizio di una disciplina emozionale con la quale definire il nostro percorso di vita, conferendogli senso e struttura.
Per me, almeno, è proprio così.
Comment
Grazie Michele per la sensibilità che ha permeato questa analisi.
Sensibilità che, ritengo, sia dote fondamentale per approcciare all’esercizio di una disciplina emozionale quale la fotografia. Condivido anch’io il pensiero a chiosa del tuo articolo.