Questo articolo chiude una trilogia dedicata all’autoscatto. Ho voluto parlarne attraverso tre autori ai quali mi sento molto legato, anche se per motivi radicalmente diversi.
Se Francesca Woodman e Vivian Maier, infatti, sono entrambe fotografe, accomunate peraltro da una celebrità divampata improvvisamente dopo la loro scomparsa, l’alpinista Walter Bonatti fa eccezione in tutti i sensi, a cominciare dal fatto che non è un fotografo.
Ma è inevitabile per me ricordarne le gesta in campo fotografico; a parte l’orgoglio di sentirmi rappresentato come italiano dalla sue leggendarie imprese alpinistiche, ammiro e condivido con lui l’amore sconfinato per la montagna, per la natura e per la fotografia.
Il legame tra alpinismo e fotografia, d’altronde, è da sempre molto stretto perché consolidato da necessità di carattere prettamente funzionale. Lo studio delle vie da scalare, la documentazione del percorso, la testimonianza dei traguardi raggiunti, l’opportunità di eseguire scatti clamorosi da punti di vista privilegiati sono solo alcune delle ragioni.
Non a caso molti alpinisti si sono affermati anche come validissimi fotografi e possiamo dire che altrettanti fotografi di montagna hanno valorizzato il proprio lavoro grazie alle suggestioni offerte dall’alta quota.
La vita di Bonatti è storia nota a molti, anche sommariamente. E’ stato protagonista di scalate senza eguali, soprattutto le ascensioni in solitaria che hanno chiuso in modo trionfale la carriera alpinistica.
Ma il seguito fu altrettanto eclatante. Sono tantissimi gli italiani che si sono appassionati agli indimenticabili reportages intorno al mondo che Bonatti realizzò per la rivista Epoca. Il prestigio dell’autore era tale che gli venne data carta bianca e poté avventurarsi con spirito libero negli angoli più remoti del pianeta.
In quegli anni l’impatto emozionale delle immagini a corredo dei testi è stato enorme e gli è valso giustamente anche la qualifica di fotografo, peraltro già guadagnata sul campo delle tante spedizioni accumulate.
Anche perché la maggior parte di queste immagini strepitose era costituita da incredibili autoscatti che ai profani sembra impossibile realizzare in solitudine. La perplessità del pubblico fu tale da indurre Epoca a pubblicare un apposito articolo dove Bonatti diede tutte le spiegazioni del caso.
Voglio proprio soffermarmi su queste immagini eccezionali che riguardo sempre con piacere. La tentazione di riprendersi all’interno di scenari mozzafiato è umanamente comprensibile e io mi sento in totale empatia con questa tecnica anche per la forte propensione personale al paesaggio.
Abituato, nel mio piccolo, alla grandiosità degli scenari di montagna, difficilissimi da comprimere in uno scatto, ho capito sulla mia pelle quanto sia necessario talvolta inserire la figura umana. A questo possiamo aggiungere anche una conclamata misantropia fotografica di carattere patologico che certamente non fa di me un mostro di simpatia con la fotocamera al collo.
Ma continuo a stupirmi di quanto Bonatti fosse bravo: non solo otteneva inquadrature di grande impatto, non solo era tecnicamente preparato, il suo pregio principale era quello di esprimere una naturalezza estrema. Riusciva a raccontare momenti di avventura emblematici, un passaggio tecnico, uno scenario grandioso, una pausa o semplicemente un momento di contemplazione senza mai indurre una sensazione di artefatto.
Il suo intento non era mai stupire il lettore con una bella immagine ma immergerlo nelle emozioni del paesaggio, le stesse che aveva provato lui nel viverlo di persona.
Gli espedienti tecnici cui faceva ricorso erano piuttosto progrediti per l’epoca. Nel pesantissimo zaino teneva almeno tre fotocamere che spesso montava contemporaneamente per riprendere lo stesso scenario con focali differenti garantendosi un risultato.
Un’accortezza inevitabile nell’era della fotografia analogica. Ricordiamoci che avrebbe potuto visionare le diapositive solo una volta tornato a casa. Chi ha vissuto queste esperienze sa cosa occorre: perizia tecnica e molta concentrazione.
Alla sensibilità progettuale, però, si sommava una impressionante abilità esecutiva. Ogni autoscatto era azionato ad una distanza spesso notevole. Quando il terreno lo consentiva utilizzava dei cavi elettrici lunghi fino a 100 metri che sapeva mimetizzare nell’erba o nella sabbia. E mi diverte molto ripensare all’aneddoto che raccontava in proposito: più di una volta, infatti, li aveva trovati rosicchiati dagli animali.
L’alternativa più sofisticata era quella di utilizzare un dispositivo a impulsi radio azionati da una scatolina trasmittente che stava in una mano.
Sono poche le eccezioni in cui ha avuto la necessità di un aiuto esterno: emblematica e famosissima la foto del tuffo nel Nilo.
Mi piace immaginare Bonatti nella preparazione di autoscatti come questi. Quasi lo vedo ammirare lo scenario del momento cogliendone le potenzialità narrative, tornare sui suoi passi di alcuni metri, preparare le fotocamere, camminare di nuovo fino al centro dell’inquadratura azionando lo scatto remoto. Guardando alcune foto mi sembra di esser lì.
Eppure, mai un cenno di narcisismo, non gli apparteneva, la sua presenza serviva a celebrare la potenza della natura.
Bonatti sapeva quanto fossero importanti precisione ed intensità, forse perché era soprattutto un alpinista. Abituato a salire da solo, era consapevole dell’importanza della documentazione fotografica, come é stato per tutti gli esploratori del secolo scorso, ma anche per molti scalatori che in qualche caso sciagurato, senza una foto di vetta, sono incappati in giganteschi equivoci storici rimasti irrisolti; come quella storia maledetta del Cerro Torre, in Patagonia, che è costata tante critiche a Cesare Maestri, un altro immenso scalatore italiano scomparso da poco portandosi dietro un palmares eccezionale e un dubbio gigantesco.
La grandezza di Bonatti risiede in quella straordinaria dimostrazione di talento che in qualunque campo porta delle persone eccezionali e fare cose eccezionali con la semplicità più disarmante.
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