di Michele Galice
SALENTO: una terra bella e intraprendente, baciata dal sole e ultimamente anche da un successo trasversale. Se Lecce costituisce il cuore pulsante della Puglia meridionale dal punto di vista geografico, istituzionale e culturale, Gallipoli ne rappresenta sicuramente la manus: fisicamente protesa verso il mare, aperta ai flussi umani e culturali, meta gettonatissima di un turismo oramai di massa. Il centro storico di Gallipoli, arroccato su un isolotto circolare collegato con fermezza alla terraferma da un moderno ponte carrabile, è emblematico di contrasti forti e significativi.
Quello tra le suggestive atmosfere di un mondo antico fatto di pescatori e di fabbricanti d’olio animati da uno spirito combattivo e lo sconcertante flusso di turisti che percorrono vocianti le stradine interne sotto lo sguardo imperturbabile di abitanti che hanno saputo accogliere il cambiamento e trasformarlo in risorsa.
Quello tra la cangiante luminosità degli edifici affacciati sul mare e gli ombrosi vicoli interni che si diramano con improvvisi cambi di direzione in grado di spezzare l’impeto del vento rivelando una serrata e sorprendente successione di scorci architettonici.
Quello tra la magnificenza delle decorazioni barocche e l’ombrosa, quasi claustrofobica semplicità delle abitazioni ricavate al piano strada.
Il sole ad agosto penetra con decisione nei vicoli come all’interno di feritoie rivelando profili inaspettati di tetti e di cornicioni altrimenti defilati al nostro sguardo. Nei miei girovagare all’interno della città vecchia l’attenzione è stata sempre attratta dall’alto. La perlustrazione attenta dei giochi di luce che emergono da queste prospettive inedite rivela un dialogo silenzioso tra luci vibranti e ombre assolute che vengono a contatto lungo linee di demarcazione nettissime: sono profili frastagliati, articolati in una selva di comignoli, di gronde, di torrini, di parapetti.
Ombre che ristrutturano vivacemente il disegno architettonico delle facciate. Più in basso, a livello della strada, i passanti lasciano traccia del loro incedere proiettando, loro malgrado, ombre cinesi volanti che intercettano sui muri intonacati sagome immobili di lanterne, di cornici, di cartelli: arredi stradali la cui oggettiva banalità viene riscattata dalla una proiezione che assurge al ruolo di enigmatico totem urbano.
Esco dai vicoli e abbagliato dal sole mi getto sul lungomare che circonda l’isola con un periplo panoramico. La luce del tramonto, calda e violenta, genera testimonianze cinetiche di una vita parallela piuttosto complessa: ombre di adulti, di bambini, di auto, delle immancabili Vespe Piaggio che fuoriescono improvvisamente dalle stradine interne come da un gigantesco alveare per immettersi roboanti in un flusso incessante di vita simile ad una gigantesca giostra.
Gente che mangia il gelato, turisti assorti che scrutano il mare: l’umanità caotica e vociante, disordinata e rumorosa della Gallipoli ferragostana, acquisisce nella sua oscura proiezione una nuova dignità quasi poetica e piuttosto contraddittoria: il caleidoscopio umano che inonda le strade con il suo strascico acustico viene seguito da un corteo muto di ombre, di profili lievi sempre eleganti.
Rimane sull’intonaco fiaccato dalla salsedine e sul carparo, la calda pietra leccese, la testimonianza della presenza e del suo divenire, le persone e le cose, e ciò che li significa all’interno di un paesaggio, quello urbano in particolare, che trova proprio la sua ragione di essere in questo fascinoso connubio. Rimane la Luce e la sua Assenza, dono prezioso per chi sa apprezzare entrambe. Rimangono le Ombre Salentine in tutto il loro contrastante splendore.