SOLO PAESAGGIO
Con l’attivazione di questo Blog dedicato ai grandi fotografi, anche se con un approccio abbastanza autobiografico, era inevitabile dover affrontare prima o poi il tema del ritratto. Non tanto per l’importanza del tema nell’ambito della fotografia, piuttosto per i forti risvolti personali così centrali nel mio percorso di vita, nel bene e nel male.
Mi sono chiesto innumerevoli volte, infatti, per quale motivo sia sempre stato così poco propenso a ritrarre le persone. Un blocco persistente, radicato, che mi accompagna fin dai primi istanti in cui ho preso in mano una macchina fotografica, cioè fin da bambino.
Tanto che sono sempre stato dileggiato da amici e parenti, scherzosamente irritati dalla mia vocazione allo scatto rivolta ovunque tranne che a loro. E a ragione, visto che li includevo nell’inquadratura solo per esigenze compositive o, peggio ancora, metriche, tanto per avere un paragone dimensionale all’interno di scenari molto ampi.
Il carattere timido e riservatissimo mi ha limitato durante tutta la giovinezza, inibendomi dall’instaurare nuove conoscenze, facendomi sentire costantemente pervaso da un disagio interiore ogni qual volta ho avuto un contatto troppo diretto o troppo affrettato con persone estranee.
Ero uno di quei bambini che quando entrava qualcuno in casa si nascondeva dietro una tenda o sotto il letto.
Una chiusura caratteriale che si è combinata – sarebbe meglio dire auto-alimentata – con un innato disinteresse antropologico e la cosa mi ha condizionato pesantemente. La verità è che fotografare le persone non mi rilassa affatto. Mentre di fronte a un bel paesaggio non conosco noia, tanto mi sento immerso in esso con anima e corpo.
La mia propensione per il paesaggio, l’amore per la natura, sono una costante incrollabile. Eppure, tra i cataloghi della mia libreria dedicati ad alcuni grandi fotografi paesaggisti, ce n’è uno che rompe con decisione questo monologo editoriale.
Perché uno dei miei fotografi preferiti è proprio un ritrattista?
LA SCOPERTA DEL RITRATTO AMBIENTALE
Nel 2009, durante un breve ma gratificante viaggio in Danimarca, mi recai al Louisiana Museum, gioiello espositivo situato sulla costa a nord di Copenaghen. La struttura, meta di un turismo intenso e segnalata in tutte le guide turistiche, è collocata su un verde pendio che degrada verso il Mare del Nord ed è un vero e proprio scrigno di straordinarie opere d’arte, sia moderna che contemporanea.
E’ un luogo piacevolissimo dalle atmosfere magiche; all’interno spazi ampi e luminosi ospitano con la dovuta ariosità opere di grande prestigio. Nel bellissimo giardino i visitatori, nelle tiepide giornate estive, si possono sedere per ammirare il piacevole panorama oppure per visitare quello che si può definire un vero e proprio parco scultoreo.
Stavo ultimando il percorso espositivo al piano superiore quando entrai in una piccola sala piuttosto buia. Gli occhi mi caddero su una serie di ritratti fotografici strabilianti che ebbero su di me un impatto quasi scioccante. Avevo di fronte un esempio clamoroso – e fino a quel momento, per mia ignoranza, del tutto sconosciuto – di come si possa realizzare ritratti con un approccio da paesaggista. Una cosa che non avevo mai visto prima e che suscitò immediatamente la mia curiosità.
Non sapevo di essere entrato per caso nella mostra temporanea dedicata agli scatti più celebri del fotografo Arnold Newman, universalmente riconosciuto come il Maestro del Ritratto Ambientale.
“L’immagine fotografica non rappresenta la realtà, ma un’illusione con la quale possiamo creare il nostro mondo privato. Non facciamo fotografie con le nostre fotocamere, ma con il cuore e la mente”…”Le persone esistono nello spazio. Il secondo piano deve sommarsi alla composizione ed aiutare a comprendere il personaggio”
Ecco spiegato con le sue stesse parole il senso di un approccio personalissimo: la geniale capacità di allestire il ritratto con un impianto scenico e compositivo che si fonde al soggetto ed è parte integrante del racconto. Una sinergia tra persone, cose e ambienti capace di sprigionare una potenza narrativa formidabile e che, nel suo caso, si combina ad una notevolissima finezza concettuale.
E’ facile immaginare quanti stimoli creativi dovessero animare Newman quando riusciva a coinvolgere nei suoi progetti grandi artisti . Aveva possibilità infinite di giocare con lo stile, con la personalità, con l’eclettismo non solo del loro carisma ma anche dei loro ateliers, rievocando nella fotografia i tratti più identificativi della loro estetica artistica.
Mondrian, Ernst, Picasso, Dushamp, Pollock, Roy Lichtenstein, Arp, Ray, Calder, sono solo alcuni dei Maestri del novecento che Newton ha ritratto con stile inarrivabile.
I CAPOLAVORI DI NEWTON
Durante quel memorabile pomeriggio danese al Lousiana Museum, alcune delle sue celebri fotografie mi segnarono nel profondo, ampliando la mia conoscenza e lanciandomi verso nuove suggestioni. Ecco quelle che mi sono rimaste più impresse nella mente e nel cuore.
La figura di profilo di Piet Mondrian, appoggiato ad un cavalletto di fronte ad una parete, è incastonata in un’inquadratura che richiama sfacciatamente i tagli geometrici a maglia ortogonale dei suoi celebri quadri.
Igor Stravinsky è relegato in un angolo dello scatto il cui campo è riempito dalla sagoma scura del pianoforte aperto. Il profilo dello strumento, sembra evocare la forma di una nota musicale, o forse il senso più profondo della sua innovazione musicale. Un elemento di rottura del contemporaneo, con quella posizione obliqua, retta dal puntello, a rompere la verticalità dello sfondo. Mai presenza in una fotografia è stata così defilata eppure così simbolicamente imponente.
Pablo Picasso ha il viso oscurato per metà dall’ombra della propria mano. Un contrasto che sembra scomporre simbolicamente e materialmente il viso secondo la sua stessa “grammatica” cubista.
Salvador Dalì, con la consueta aria stralunata, posa di fronte ad un filo di ferro che pende da non si sa dove, contorto, sinuoso, senza capo né coda. Newton coglie l’impalpabile e costruisce il suo racconto sulla sottile ma efficacissima tensione narrativa che si sprigiona dall’associare lo sguardo del Genio al cavo snodato. Un’idea raffinatissima per raccontare a proprio modo il non sense di una storia artistica trasgressivo.
Max Ernst ha i lineamenti del viso velati dal fumo di una sigaretta; un’espressione magnetica, inquieta, come il carattere sfuggente della sua poetica surrealista che sembra materializzarsi in quello stravagante schienale, sinuoso e al tempo stesso spigoloso come le sue incredibili “creature” pittoriche.
L’architetto Pei, fa capolino da una finestra di interni, un’asola di luce nell’oscurità. Un’inquadratura dal taglio minimalista e architettonico che rende omaggio allo spirito del suo lavoro progettuale.
E infine Alberto Giacometti, fissa la camera con sguardo profondissimo. Sullo sfondo un tavolo da lavoro pieno di vecchie bottiglie vuote. Impossibile per me non pensare alla esile serialità delle sue famose sculture umane, stilisticamente inconfondibili eppure mai uguali a se stesse. Un ritratto nel ritratto. Un ritratto capolavoro.
E questi non sono ritratti, sono molto di più, sono quadri concepiti con la tecnica e la sensibilità progettuale di un paesaggista che sa gestire la totalità dell’inquadratura dando il giusto peso ad ogni elemento funzionale al racconto. Arnold Newton è un paesaggista dell’anima.
2 Comments
Bellissimo, grazie!
Benché io abbia un approccio diametralmente opposto, cioè “ritrarre” gli altri mi mette del tutto a mio agio, comprendo pienamente il tuo sconvolgimento di quel giorno che fu: vedere il proprio campo (riguardo te, è il paesaggio) inserito e usato in una visione altra, sconvolge. È come vedere ampliati sé stessi.