OMBRE SALENTINE di Silvia Castrati (2016)
OMBRE SALENTINE di Donatella Donati (2016)
OMBRE SALENTINE di Francesca Luciani (2016)
SCENARI E VISIONI di Aldo Sclano (2005)
OMBRE SALENTINE di Silvia Castrati (catalogo mostra 2016)
Di fronte a me un pilastro taglia l’inquadratura in verticale, tubi e travi abbarbicati intorno volteggiano nel vuoto di uno spazio indefinito, buio come il ventre di un gigante metallico. E’ una foto di Michele Galice che mi accompagna da anni, la stazione di Basilea. A tradirne l’identità due treni in movimento parallelo che attraversano orizzontalmente la metà inferiore dell’immagine, mentre una serie di scale mobili con la sua linearità obliqua spezza la perfetta maglia ortogonale di treni, travi e pilastri.
Ciò che colpisce di questa foto non è solo il bilanciamento sapiente degli elementi compositivi, ma l’uso pittorico della luce, una luce fredda che nell’oscurità dell’enorme vo- lume architettonico accende vetri e metalli, virando i colori da un’infinita varietà di grigi verso i toni più acidi del giallo e del verde. Uno scenario ambiguamente affascinante. E’ una stazione ferroviaria, ma potrebbe trattarsi di una scenografia disegnata da Giger, una navicella spaziale, o un quadro astratto dove linee, volumi e colori generano un dinamismo potente.
Sta proprio qui il talento fotografico di Michele, nel sapere fare tabula rasa di ciò che è conosciuto e visibile per ricavarne immagini di un’emozione cristallina. All’inizio c’erano paesaggi allo stato puro, candide montagne innevate o accese pareti dolomitiche colte nei romantici bagliori di un tramonto, intrichi vegetali di lancinante bellezza, ombrosi sentieri, “cieli immensi e immenso amore” come recita la canzone di Battisti. Poi altri attori hanno rubato la scena. Ammassi di rottami rugginosi, saettanti autostrade, mostruose statue di campanili gotici, avveniristiche architetture o insoliti e poetici skyline. I soggetti di Michele col tempo diventano sempre più antropizzati, rivelando oltre al paesaggista infaticabile un animo “urbano” e sottilmente sofisticato.Riflessivo e calibrato come può esserlo un architetto nello studio delle forme compositive dello spazio, ma anche appassionato “pittore” della luce, perso nella contemplazione di cromatismi irresistibili, tanto da commuoversi davanti al finestrino di un treno e scattare all’impazzata, senza concentrazione e senza filtri.
I genitori, entrambi artisti, lo hanno cresciuto a pane e pittura, regalandogli uno straordinario bagaglio iconografico, un “lessico famigliare” dove al posto di frasi, modi di dire o espressioni gergali a risvegliare sentimenti e memorie ci sono foto, dipinti, bizzarre collezioni di oggetti e cataloghi d’arte. Un’eredità importante che tuttavia non basterebbe a farne il fotografo che è oggi senza essere sorretta da un’autentica passione e da un’attitudine allo sguardo nella ricerca di un percorso espressivo estremamente personale. Attitudine allo sguardo, già, perchè Michele è un cacciatore di immagini, uno a cui piace immortalare momenti e luoghi per il gusto di fissare l’attimo e racchiuderlo in un’aura di sacralità. Dietro ogni suo scatto potrebbe iniziare un racconto, come in un film. Proprio come un regista me lo immagino nella realizzazione di queste “ombre salentine”. Un vagabondo Wim Wenders per le strade di Gallipoli in piena estate, abbagliato dal candore dei muri e stordito dalla vividezza dei colori, mentre ricerca l’affinità dei luoghi, per fermare il tempo, per evocare storie.
C’è la città, calma e piatta, dai toni tenui e crepuscolari, onirica come in un racconto di Calvino. Ci sono balconi, modanature e muri scrostati, incorniciati come gioielli preziosi, e poi ancora lampioni, tetti, carene di navi. I colori a volte sono pieni e vivaci, a volte desaturati dal tempo. Linee e volumi sono ridotti all’essenziale, disegnando un paesaggio dai toni metafisici. Tutto sembrerebbe ricoperto dalla coltre di un sonno perenne, un velo di maleficio che avvolge cose e persone, se non fosse per il guizzo di quelle ombre che fanno palpitare i muri, li attraversano nella luce del tramonto rivelando fugaci presenze. Viene da chiedersi se siano persone in carne ed ossa, oppure ombre del passato, impressionate sulle facciate degli edifici come dopo la deflagrazione di un’atomica.
Restiamo sospesi in questo tempo irreale, come sospeso è lo sguardo di Michele che nel momento dello scatto passa oltre l’obiettivo, per fondersi con le sue immagini, per perdersi nel mondo ed amarlo di più.
OMBRE SALENTINE di Donatella Donati (per la mostra 2016)
Una mostra che si attraversa come un pezzo di vita, un cammino emozionante dentro un punto di vista che alla fine si scopre visione. A un capo del filo del discorso l’ombra, che in apparenza disegna linee rette e profili di forme eppure non è mai forma, ma sempre contenuto, perché evoca, e l’evocazione ha voce più potente del pensiero; perché suggerisce alle profondità del sentimento e non parla alla superficie della ragione; perché come la vita ci fa apprendere ciò che è davvero importante dall’assenza, imparare dal contrario.
Dall’altro capo il colore, liberato dalla sua funzione pittorica e restituito al suo potere di costruttore di realtà, struttura e definizione spaziale, creatore dell’esistente. Il colore come lo hanno finalmente compreso e celebrato tanti artisti contemporanei, vera anima del mondo e nuovo destino per l’arte e l’umanità. E infine il libro che portiamo con noi andando via, non lo chiamo catalogo, è parte integrante di questa mostra, con tutte le foto e le frasi di artisti, architetti, poeti, scrittori. Ognuna uno spunto, un percorso, una strada che ci invita. Dedicate un po’ del vostro tempo a questo viaggio. Ne vale la pena.
OMBRE SALENTINE di Francesca Luciani (per la mostra 2016)
Vedi delle pareti, dei comignoli assonnati, il cielo che non si stacca dall’ingenuità di un nuovo giorno e poi ombre, finestre, linee perfette, sole, sole ovunque, anche dove non può entrare. Nessun orizzonte inflazionato, nessun romanticismo imballato, tetti e dolori, una parabola, il bianco sporco quasi giallo della Puglia, che sembra sempre morire di caldo e rigenerarti quando sei ad un passo dal non credere più alla bellezza.
Silenzio. Il silenzio che ogni tanto si lascia zittire dal vento e poi scende giù fino al mare di Gallipoli, si bagna i lati, intasca il caldo e sta lì ad aspettare di far parte di qualcosa di raro, di una foto, di un momento che non ti tradisce.
E io ne ho rubata una, ieri, non l’ho detto a nessuno perché è ancora lì insieme alle altre. Vorrei quella foto appesa alle pareti del mio futuro, vorrei sbirciarla la mattina appena mi sveglio, sentirla camminare nel presente, avvertirla nei ricordi quando sarò lontana da casa, spiegarla a chi mi chiede perché è lì, tuffarmi su quei tetti ogni volta che devo saltare fuori da me.
Raramente mi succede con delle foto, più con i dipinti, forse unicamente Salgado mi ha fatto dire: “La voglio”.
Riesco a descrivere solo così la mostra fotografica di Michele Galice inaugurata ieri a Civitavecchia. “Ombre Salentine” è un racconto di luoghi, un racconto di linee, di architetture e di ombre, di normalità ignorata e persistente nella vita di chi, quelle ombre, le ha installate nel DNA e non riesce a leggerci nulla pur non potendone fare a meno. Michele è un artista che non grida le sue capacità, le dà al mondo con la semplicità di chi non ha bisogno di conferme, ma solo di esprimersi con il linguaggio della fotografia. E lo fa dannatamente bene.
SCENARI E VISIONI di Aldo Sclano (per la mostra PAESAGGI DI LUCE, 2005)
Alcuni li veste. Altri li riduce, scabri. I cieli, sembra li dipinga. Come se sorvolasse monti e valli e si soffermasse, acuto, su quell’aria, quel piccolo bacino d’acqua, quell’ombra del crinale assolato. Fotografa i paesaggi Michele Galice, ma non si cura di renderli, di rappresentarli; fa collezione dei loro attimi, suggestivi, incantati, e li custodisce.
Il suo occhio interviene, distingue, sceglie, la sua macchina obbedisce e in “quel” momento li coglie. In fondo lo traduce il paesaggio, lo depura e ne ricompone la naturalità che indica, ma ne raccoglie e ne compie una sorta di riscatto. Non più la percezione di zone, masse e strapiombi, ma la giustapposizione delle loro aree e colori per una forma nuova di montagna; un’immagine di montagna che raduna gli accostamenti, le campiture, i toni della materia in una visione calibrata tra l’offerta di sé, aperta e dispersa, e il “riordino” delle sue asprezze, degli ingombri monumentali, delle coloriture tattili. Come se ne riprofilasse, Michele Galice, una identità più serrata, una misura di aggregata unità di elementi diversi; fino ai limiti di esiti nuovi, in una trama “dovuta” alle forme della montagna, ma destinate, ora, al piacere di combinazioni che risaltano sponde lineari evocative, astratte figurazioni di stati d’animo, “dipinti” fotografati. La montagna c’è, è lì, fonda e serena, ma decantata: rocce e lontananze aggregano incastri e rapporti sul foglio della foto, e il paesaggio, docile, appare “quadro”, si conforma alla sensibilità, per noi, del suo autore. Il vero si mostra verosimile in un nuovo assetto, nuove soglie al di là delle quali (al di qua?) si riconosce la realtà, ma ormai ai confini dell’immaginazione, rigorosi, però, nello scandire una nuova bellezza.
La figura umana, quando raramente appare, è inscritta nella pagina del paesaggio a punteggiare, a definire un equilibrio, a rapportare un tracciato a un orizzonte, a riconoscerci lì, dispersi, tra la suggestione e la distanza. E’ collocato, l’uomo, in funzione dello scenario grandioso, figurante da inserire, mobile e umile, soltanto nel ruolo della sua piccola utile apparenza.
Anche l’artificiale, il costruito, l’edificato dall’uomo, è raro: una piastra verticale, la regolarità plastica di una massa, il volume compatto solido e protettivo di una casa, sono lì a confortare l’uomo, vicini al suo incantato, isolato smarrimento, al suo essere comunque appena una singolarità fisica, minuscola, inconsistente, in soggezione al cospetto delle dimensione irriducibile della spazialità dilatata e sovrastante.
Ed è con la luce che “anima” i suoi paesaggi, anche quelli “eretici” dal tema alpino della montagna; è con la luce che fa scoccare gli accordi tra le profondità intangibili di un mare disperso e l’implacabile immanenza di un colore fiammante, caldissimo; la geometria ancorata di un orizzonte con i contorni foschi di una sagoma di nave, la quinta grigia di una collina che scende e le sfumature lilla e azzurrine di profili distanziati. La luce che svela o nasconde, impudica o discreta, l’infinito disporsi, nel tempo e nello spazio, del teatro nobile e sovrano del paesaggio; sa rendere la montagna, la luce, severa o rassicurante, sconfinata o solenne. Michele Galice vuole attribuire alla sua maestosità la grazia dell’armonia. Vederla, e intenderla, come la possibilità di vivere i suoi scenari percettivi – le foto – testimonianza e proiezione di visioni e valori interiori.