L’arte è sempre stata presente nella storia della mia famiglia, ne rappresenta il legante più profondo e trasversale. E con il termine di famiglia mi riferisco all’accezione più estesa possibile del termine, quella che comincia dai miei genitori per finire oltre l’orizzonte, nella parentela con il compositore Romualdo Marenco e in quella lontanissima con Giacomo Puccini.
Sono figlio di pittori, entrambi insegnanti di educazione artistica. Sono anche discendente, nipote, cugino di tanti parenti dediti alla pittura, alla grafica, alla fotografia, all’architettura, alla musica, tutte passioni che fluiscono nel nostro sangue da generazioni.
La pittura e la fotografia, però, mi hanno coinvolto maggiormente perché le ho viste praticare dai miei genitori fin da quando ho ricordi.
Sono cresciuto, infatti, ammirando i quadri appesi alle pareti di casa e quelli che si materializzavano sotto i miei occhi, immerso nell’odore pungente ma inebriante dell’acqua ragia, dei colori acrilici, delle tele, del legno. Mi sono trovato ad emulare gesti che apparivano naturali e necessari.
Le mie attitudini si sono espresse in due fasi temporali distinte separate da una linea di demarcazione nettissima dai risvolti quasi traumatici. Ci sono stati un prima e un dopo.
Il “prima” è stato il disegno. Sono sempre stato con una penna in mano. A casa e a scuola lasciavo traccia del mio mondo interiore su fogli volanti e sui diari dei compagni, attività che preferivo alla conversazione cui mi lasciavo andare, invece, con grande parsimonia.
Il disegno è certamente la mia vocazione primigenia, prevaricante rispetto a qualsiasi tecnica di colorazione. Campire contorni con il colore è sempre stato per me un gesto di una lentezza inadeguata rispetto all’istinto del segno, nervoso e impaziente.
A un certo punto il fumetto d’autore è entrato prepotentemente nella mia vita grazie ad alcuni cugini. Dobbiamo tutti qualcosa di importante ai cugini e nel mio caso sono almeno due. Innanzitutto, essendo più grandi, sono stati il mio portale di ingresso nel mondo della canzone d’autore, Battiato e Rino Gaetano in primis.
Ma grazie a loro ho scoperto anche una rivista strepitosa che si vantava di pubblicare, senza alcuna esagerazione, “i fumetti più belli del mondo”: l’Eternauta.
Era proprio vero, in ogni numero venivano proposti i migliori fumettisti in circolazione. A me delle storie interessava ben poco. Ammiravo, stralunato e quasi in preda alla Sindrome di Stendhal, le tavole che Vincente Segrelles dipingeva a pennello impiegando un mese intero per realizzare una singola pagina da pubblicare.
Ma con L’Eternauta è avvenuta una scoperta ancora più folgorante, destinata a lasciare un segno profondissimo. Ho visto per la prima volta gli incredibili disegni di Sergio Toppi, probabilmente il più talentuoso illustratore italiano mai esistito.
Maestro inarrivabile di composizione ed eleganza, l’ho studiato per anni, emulandolo ingenuamente nella ricerca di uno stile personale che potesse esprimere anche solo un briciolo di quella elegante autorevolezza fatta di trame preziose e di impaginazioni sontuose che hanno fatto la storia del fumetto.
L’arte di Toppi è entrata prepotentemente in famiglia. Ricambiando, infatti, quell’inconsapevole imprinting con il quale papà mi aveva fatto conoscere Franco Fontana attivando la mia passione per la fotografia, gli restituii il favore segnalandogli l’arte di Toppi in un momento in cui stava cercando nuove ispirazioni.
Quando ricevette la graditissima proposta di illustrare un libro di poesie dialettali studiò attentamente i tratteggi di Toppi così come i suoi elegantissimi tagli compositivi.
Una grande soddisfazione che mi fece sentire parte integrante del suo percorso artistico. Fu una delle prime volte che provai l’ebbrezza di essere guidato da questi flussi energetici e creativi che attraversano la vita delle persone, degli artisti, tra discipline e generazioni! Da allora è rimasta la voglia di contaminarmi con altre collaborazioni.
Anche io avevo maturato la suggestione di una carriera da illustratore ma la cosa avrebbe richiesto scelte di vita che all’epoca trovavo avventate. Iscrivermi ad una scuola per disegnatori invece che a un liceo o all’università avrebbe comportato dal punto di vista lavorativo un autentico salto nel buio. Non ho avuto il coraggio.
Dando continuità ad un criterio già adottato iscrivendomi al liceo classico scelsi la facoltà di Architettura, senza una vera vocazione, ritenendo più prudente acquisire uno spettro di competenze più ampio possibile per non pregiudicarmi alcuna prospettiva.
Ma non avevo valutato un aspetto fondamentale: i ritmi dello studio, e successivamente del lavoro, avrebbero tolto il respiro ad una disciplina, quella del disegno, che richiede invece grande assiduità nell’esercitare la mano e un impegno intellettuale privo di distrazioni.
Le mie ambizioni nel disegno, a questo punto, sono scemate improvvisamente lasciandomi nell’urgenza espressiva di trovare un altro canale di comunicazione artistica. Ci misi poco a focalizzarlo in ciò che avevo sempre praticato con assiduità ma senza una piena consapevolezza: la fotografia.
Apprezzavo il fatto che fotografare non richiedesse la complessa progettazione di una tavola a fumetti. Potevo rincorrere sul momento un’idea, una suggestione dandogli un’immediata concretezza. Ma nonostante questa velocità esecutiva che trovavo congeniale, la mia vocazione paesaggistica non ha mai potuto prescindere da un approccio pittoricista.
Non è questo un fatto da relegarsi alla mera ricercatezza estetica; mi riferisco piuttosto a quella entusiasmante fase preparatoria, intellettuale ma anche operativa, con la quale immagino lo scatto e monto il treppiede, similmente a un pittore alle prese con il cavalletto sul quale andrà ad adagiare una nuova tela bianca.
Stesso approccio vedutista, fatto di vibrazioni cromatiche e di studio compositivo che mi fanno sentire un apprendista sulle orme del Canaletto, certamente indegno ma ugualmente motivato, o sulla scia dei paesaggisti italiani di fine ottocento, veri antesignani della fotografia di paesaggio per l’entusiasmo con il quale cercavano di raccontare i segreti della luce.
Il decennio che ho dedicato in modo esclusivo alla fotografia di montagna – e non a caso delle Dolomiti – l’ho affrontato esattamente con questo spirito contemplativo.
Ed è facile comprendere, a questo punto, la mia grande sensibilità verso tutto ciò che evoca la pittura; una qualità che cerco costantemente riconoscendole un valore aggiunto di carattere estetico, tecnico e comunicativo.
Guardandomi indietro noto con curiosità che questa ricerca quasi viscerale della pittoricità mi ha sempre accompagnato evolvendosi insieme ai miei gusti fotografici.
Quando si è andata ad esaurire la vena montana, anche a causa di un inevitabile ridimensionamento dei soggiorni vacanzieri, mi sono lasciato prendere dalla fotografia di strada, così veloce e affascinante.
E parallelamente alla voglia, sempre crescente, di dedicarmi al paesaggio urbano e quindi anche all’architettura, è maturata l’attenzione verso la pittura contemporanea legata alle medesime ispirazioni.
Ecco che finisco di nuovo dentro la libreria di casa, nei cataloghi di papà, nei richiami agli scenari urbani, notturni e crepuscolari che emergono dai quadri di pittori molto amati in famiglia, come Ennio Calabria e Renzo Vespignani.
Due maestri che stimiamo profondamente per la cifra espressiva modernissima e per la capacità di confrontarsi con i temi della città, la gente, l’architettura, le periferie, esprimendo un vissuto profondo e radicato, socialmente impegnato.
Nel mio caso personale fotografare la città significa chiudere un cerchio: sicuramente raccordando diverse espressioni artistiche della mia sensibilità, ma soprattutto riconciliandomi con le scelte più complicate della mia vita, con l’architettura in particolare, una disciplina che ho vissuto attraversando momenti talvolta conflittuali.
Ecco perché fotografo, perché ho smesso di disegnare. E per lo stesso motivo quando la fotografia ritrova la pittura mi entusiasmo facilmente.
Ma continuo a vedere quadri attorno a me. Ovunque.
7 Comments
E’tutto bellissimo ,sei bravissimo e sono felice per te
Non so come saresti stato come pittore ma le tue fotografie sono
Letto tutto d’un fiato.
Mi hai aperto una finestra su di te – ricordandomi che era chiusa – appena ho visto le immagini che accompagni a ciò che scrivi.
Sincero, pacato, appassionato e vinto dalla passione come solo chi la governa, e ne sa godere, sa fare.
Bravo.
Bello sapere che l’arte in te alberga sapendo farsi ascoltare con uno scatto ma anche con parole misurate, cesellate in un getto che sembra istinto ma è regale riflessione.
Bravo ancora.
… e grazie
Isabella
Ammetto di invidiare chi ha avuto qualcosa in più alla nascita: l’orecchio musicale, la mano capace di disegnare, o anche solo qualche capacità sportiva …
Però capisco che non averla potuta esprimere nella propria vita lavorativa deve pesare. Fai bene a cercare un modo per esprimere questo dono: è quasi una responsabilità …
Ho letto con grande interesse e con molto piacere la storia del tuo percorso artistico dal disegno alla fotografia.L’interesse è derivato dal fatto che le tue parole mi hanno fatto entrare ancora una volta nell’atmosfera artistica che ho sempre respirato nelle tua famiglia. Il piacere viene dal modo in cui analizzi e motivi le tue scelte Devo dire che l’artista in te si sente non solo nel godere le immagini fotografiche che produci,ma anche nel leggere come ti racconti.
Grazie.
Ho letto con grande compiacimento, conoscendo bene la tua famiglia e altrettanto te. Ciao Michele!
Grazie Francesco. Onorato