Il mio rapporto con la fotografia è cominciato da bambino.
In famiglia c’è sempre stata la tradizione di confezionare splendidi album con le foto ricordo. I miei, poco prima che nascessi, avevano acquistato una reflex per fare ritratti, soprattutto durante le lunghissime e totalizzanti vacanze estive che trascorrevamo sulle Dolomiti. Ma la usavano anche per catalogare i quadri che dipingevano nel tempo libero. La fotografia, quindi, non era una passione in sé, piuttosto una pratica molto piacevole finalizzata alla documentazione di altre attività sicuramente più centrali.
All’inizio è stato così anche per me, ero spinto dal desiderio spasmodico di fermare, quasi di imprigionare, le suggestioni del cielo e della terra. I miei occhi erano perennemente rapiti dai colori della natura, dalla montagna che frequentavamo intensamente, dalle stelle visibili dal nostro attico davanti al Mare Tirreno, un mare che ci regalava tramonti infuocati e incredibili. Paesaggio naturale, montagna e astronomia: le passioni di una vita.
Il nonno, compiaciuto del comune interesse, cominciò a passarmi gli apparecchi automatici che non usava più. Ricordo una Kodak Instamatic (che meraviglia l’innesto di quei caricatori di plastica) e, anni dopo, la più sofisticata Minolta CLE a telemetro con alimentazione elettronica: caricandola con pellicole negative Kodak cominciai a provare una certa soddisfazione nel raccogliere i miei ricordi delle gite in montagna.
Niente ritratti, ero troppo timido. Niente immagini di strada, non mi interessavano. Soltanto tramonti, nuvole, astri del giorno e della notte, paesaggi. Tutto ciò che emozionava occhi e cuore finiva nelle mie prime fotografie. Gli scatti che facevo con parsimonia raramente erano un gesto fatto di consapevolezza tecnica, piuttosto atti estemporanei di stampo quasi pittorico dove, nella fase di preparazione dello scatto, tutta la mia attenzione era assorbita dallo studio compositivo.
Da adolescente, dopo le prime osservazioni astronomiche fai da te con apparecchi giocattolo, al dire il vero molto frustranti, venni contattato da alcuni astrofili della mia città e con l’acquisto di un vero telescopio cominciai a fare osservazioni degne di questo nome e anche le mie prime fotografie astronomiche. Una disciplina difficile che richiede molta pazienza e precisione, troppe per me. Presto la ripresa del cielo notturno rese necessaria una tale progressione di tecniche e di strumentazione che finii per desistere del tutto. Troppa fatica.
L’astronomia rimase un amore profondo ma ancorato selettivamente ad alcuni aspetti meno tecnici come la mitologia delle costellazioni e la mera osservazione. Quanto alla fotografia mi concentrai esclusivamente sulla montagna, passione di famiglia da tre generazioni, fonte inesauribile di felicità e di appagamento. La Minolta del nonno, cui ho già accennato, si dimostrò lo strumento ideale per cominciare. Compatta e automatica, con una messa a fuoco nel mirino piuttosto rudimentale ma alquanto efficace e un’ottica semi-grandangolare di qualità, era comodissima da portare in gita e lo era ancora di più in parete per scattare foto anche nelle posizioni più precarie, l’avevo sempre al collo.
Papà, apprezzava il mio entusiasmo e ammirava soprattutto la spiccata sensibilità compositiva che era anche la sua, cominciò, così, a farmi usare sempre più spesso la fotocamera di famiglia, una splendida Pentax Spotmatic del 1969. Un gioiello tecnico dotato di uno strabiliante obiettivo da 50 mm di focale, luminosissimo grazie ad un innovativo trattamento antiriflesso sviluppato con Zeiss. Diventerà mia anni dopo, quando scattare fotografie non sarà più un passatempo ma uno strumento espressivo e un’impagabile fonte di piacere.
Dopo innumerevoli stampe delle vacanze estive, talvolta deludenti perché ricavate da pellicole e da procedimenti commerciali, mi lanciai nell’uso di pellicole professionali. Ricordo ancora l’emozione di uno dei primi cibachrome, le famose stampe da diapositiva dalla resa cromatica densa e brillante: si trattava di un assolato prato gardenese di un verde quasi commovente. I miei genitori, abituati a foto ricordo senza troppe pretese, erano increduli di fronte ad una stampa così vivida dai connotati professionali. In quel preciso momento la fotografia in montagna è diventata una sfida aperta, divertentissima e travolgente.
La pellicola positiva Fuji Velvia 50 Iso, così sensibile alle tonalità fredde, era lo strumento perfetto per documentare le sfumature cromatiche delle Dolomiti, anche in assenza di sole. Una pellicola severa che non ammette errori di esposizione; è stata una scuola molto formativa resa ancora più preziosa dalla difficoltà di operare in condizioni di luce impegnative come quelle in alta quota, fatte di chiaroscuri nettissimi, di ombre assolute, di nebbie, di controluce accecanti, di dominanti cromatiche, di panorami grandiosi impossibili da contenere nell’obiettivo a meno di usare dei grandangolari che annichiliscono tutta la carica emotiva di una visione a occhio nudo, di fatto insostituibile. Questo campo è stata la mia scuola.
Sono arrivato a conoscere così bene quelle luci, quella pellicola e quella fotocamera da riuscire ad eliminare del tutto il bracketing: eseguivo scatti singoli, anche di fronte a situazioni eccezionali che avrebbero consigliato una più prudente raccolta di tentativi. Roba da cecchini. Un’esperienza che mi ha consentito nel 2008 di passare 25 giorni negli Stati Uniti, tra i Parchi Nazionali desertici, con sole 8 pellicole diapositive che ho usato, oltretutto, per realizzare scatti in serie da montare in formato panoramico. Sono tornato senza avere sbagliato una foto.
La vera frustrazione si rivelò un’altra: passare un anno intero ad effettuare scansioni delle DIA da rielaborare con Photoshop per pulirle dalla polvere e montarle in immagini panoramiche. Decisi così di passare al digitale scegliendo uno dei migliori apparecchi in commercio in grado di restituirmi dei files della stessa dimensione e risoluzione della diapositiva scansionata. E sono diventato canonista, in quel momento era il top.
Nel frattempo, anni prima, con la scelta della tesi di laurea in architettura sul paesaggio dei Monti della Tolfa, avevo acquisito un’ulteriore consapevolezza; una maturazione interiore, più lenta e sottile, che mi ha portato ad assaporare in modo netto quel senso di compiutezza insito in un progetto di lungo respiro.
Non mi riferisco alla ricchezza narrativa di un reportage e neanche alla complessità di un portfolio, piuttosto alla completezza di un abaco da sviluppare nel tempo: un modo per esprimere le tante sfaccettature di un tema ampliandone il respiro comunicativo. E’ certamente una forma personale di urgenza espressiva che trova la sua collocazione ideale nella mostra.
La mostra è anche un canale di condivisione entusiasmante che mi ha permesso di dare continuità ad una tradizione di famiglia; essendo figlio di pittori, infatti, ho tanti ricordi indelebili legati a progetti espositivi, a vernissage, a momenti diventati così familiari che oggi posso affermare senza esagerazioni di sentirmi a casa ogni volta che ne visito una. Quante riunioni serali a casa nostra, magari durante una cena organizzata dai miei nella quale si elaboravano idee per nuove entusiasmanti rassegne collettive insieme ai pittori più validi del comprensorio. Un’atmosfera elettrizzante che mi è rimasta addosso. Ancora oggi, la soddisfazione di progettare e realizzare una nuova mostra è pari al piacere di presentarla.
E così, dopo 10 anni di fotografia in montagna esercitata con fervore, nel 2005 è nato Paesaggi di Luce, il titolo del mio primo sito internet e della prima mostra, un nome che mi rappresenta completamente: l’interesse per il paesaggio, la ricerca delle luci e dei colori, tutto ciò che mi interessa fotografare. Questa mostra, oltre a rappresentare un bellissimo ricordo, ha chiuso un percorso di crescita monotematico avviando un nuovo ciclo con il quale mi sono aperto a nuove esperienze fotografiche.
Da pochi mesi ho inaugurato il nuovo sito internet: mi sono rassegnato alla necessità di un rinnovamento tecnico e ne ho approfittato per aggiornare le gallerie. Finalmente si sono arricchite di temi legati a nuove nicchie del paesaggio naturale e di quello urbano dove ho sfogato la mia vena da architetto più di quanto abbia voluto fare nella professione.
Ho voluto fortemente abbinare un blog al nuovo sito perché la pubblicazione periodica di articoli o di semplici riflessioni scritte, condivise dal 2014 tramite la mia newsletter con centinaia di amici e conoscenti, è divenuta ormai un canale comunicativo consolidato piuttosto appagante.
L’intento è quello di riuscire a raccontare qualcosa di più profondo della mia personalità attraverso le emozioni che mi legano alle opere di altri autori. Questo blog è dedicato ai miei riferimenti artistici in campo fotografico o più semplicemente a ciò che non è mio ma avrei voluto che lo fosse.
In pratica, un’ulteriore galleria fotografica, quella dell’anima.
5 Comments
Grazie della tua testimonianza semplice Michele!
Senza tutte le conseguenze filosofiche e psicologiche a volte noiose (come faccio io!)
… la Velvia 50!! Ne ho conservate solo poche decine di migliaia…
Finché ci sarà una realtà dove vivere la fotografia (vera) vivrà.
Buona Vita!!
Grazie Carlo. Sai che ti stimo davvero …
Ciao Omonimo, grazie per questa narrazione, te lo dico con l’ammirazione e l’affetto non solo di un amico, ma di uno che invece entra nel territorio della fotografia solo per parentesi, e con meno sistematicità.
Ciao Michele, continuo ad essere stupefatto dalla tua capacità di essere così esaustivo e semplicemente essenziale nello stesso tempo. Credo che sia prerogativa di chi, quando si esprime, ha davvero qualcosa da dire, come testimoniano anche i tuoi scatti. Complimenti!
Franco
Grazie Francesco, hai detto proprio una cosa importante, mi illudo non tanto di avere un qualche talento che non saprei proprio giudicare, ma di avere qualcosa da dire, questo sì.