PAESAGGI DI LUCE NELLE CANYONLANDS
di Michele Galice
I DESERTI nell’ovest degli U.S.A. sono protetti da un circolo di meravigliosi parchi naturali. Crepe abissali che si diramano, nervose e profonde, su terre assolate. Laddove millenni di sedimentazioni hanno sovrapposto chilometri di roccia stratificata, il lento e inesorabile scorrimento dell’acqua ha scavato solchi profondissimi, vene gigantesche portatrici di vita.
Attraversare queste distese sabbiose significa muoversi al rallentatore, viaggiare per ore senza cambi di orizzonte significativi. Ogni tanto emergono bizzarre presenze rocciose, lontanissime, troppo distanti per invogliare un qualsiasi avvicinamento. Paesaggi talmente sconfinati da indurre un senso di vuoto e di monotonia: si ricompongono nella nostra percezione come luogo della mente oltre che fisico, dove l’orizzonte finisce per delimitare anche i nostri stati emozionali che tendono a identificarsi con il paesaggio.
Sensazioni che richiamano, per assurdo, la percezione che abbiamo della storia degli U.S.A.: sembra talmente breve, rispetto alla nostra, da indurci a non inquadrarla in uno sviluppo cronologico di una qualche rilevanza. Il nostro paesaggio, articolato in spazi certamente più compressi, costringe piacevolmente ad una serrata e complessa successione di vedute che suscita uno stringente senso di progressione; in America tutto è dilatato in una spazialità troppo estesa per comunicare un senso di dinamismo cronologico.
Il paesaggio dei deserti non lo si scopre, ci si limita ad attraversarlo, fino ad uscirne.
Ma spesso questa piattezza sconfinata è interrotta da autentici shock visivi del tutto inaspettati. La natura ci sorprende con elementi di rottura di una magnificenza sconvolgente. L’avvento di uno scenario è improvviso, senza un trascorso visuale che ne strutturi consapevolmente la scoperta: lungo una strada infinita, dritta fino all’orizzonte, un cartello di legno, discreto e anonimo, indica con una semplice freccia direzionale la presenza di un belvedere nelle vicinanze.
Giunti a piedi o in macchina in quelle che si presentano molto ambiguamente come delle piazzole disperse nel nulla, un basso muretto a secco, qualche visitatore o alcune auto in sosta tradiscono la presenza di un affaccio. Accostandoci al ciglio, si apre d’improvviso sotto i nostri piedi una veduta immensa per vastità e profondità. Il caldo alito abissale del canyon ci investe e ci fa ritrarre senza fiato. Gli occhi cercano come impazziti di ancorarsi ad un riferimento qualsiasi che consenta di abbracciare con interezza una veduta troppo estesa per essere elaborata nel suo insieme. Una visuale paralizzante che si apre davanti e sotto di noi, rivelata senza preavviso come da un gigantesco sipario che fino a quel momento aveva nascosto una scenografia misteriosa.
La natura americana ha il senso dello spettacolo, come la cultura che vi è cresciuta dentro; uno “show”, come i rangers del Bryce Canyon chiamano quelle che noi definiremmo – e che altro non sono – delle lezioni, o dei seminari didattici destinati ad un pubblico giovane, messi in scena con gestualità teatrali esasperate e un po’ infantili che a noi appaiono quasi ridicole ma che molti americani trovano irresistibili. In America tutto è show e si fatica a capirne il senso fino a quando non si visita questi luoghi che sembrano legittimare, almeno nello spirito, la grandezza delle opere dell’uomo. Una grandezza che contrasta con il vuoto ovattato di quegli innumerevoli e microscopici abitati sparsi nel deserto dove poche decine di anime nascono, vivono e muoiono tra gruzzoli di case-roulottes raccolte attorno ad una pompa di benzina.
E’ una delle grandi contraddizioni di questo popolo che si concentra in grandiosi agglomerati urbani di una densità smisurata ed al contempo può sopravvivere con disinvoltura nella desolazione sociale e nell’isolamento della natura più arida, con uno spirito di adattamento di memoria coloniale che sembra ancora vivissimo. Una sensazione di vuoto che affascina e che può indurre, al contempo, un vertiginoso disorientamento, come quello che Ridley Scott ha magistralmente interpretato nella drammatica e memorabile sequenza finale di “Thelma e Louise”, girata proprio nel cuore delle Canyonlands lungo uno dei tratti più belli e selvaggi del Colorado River.
Le Canyonlands e i deserti circostanti scavano nell’anima del visitatore solchi profondissimi, come quelli geologici che le hanno generate. Si ritorna da questi luoghi con un senso di inadeguatezza che però non lascia a disagio, non ci umilia; piuttosto stordisce, lasciandoci con una nuova aspirazione interiore, col tempo sempre più bruciante, la voglia di riprovare quelle sensazioni che ci hanno elevato ad una consapevolezza più piena di noi e del mondo in cui viviamo.
Ho trascorso tutta la mia vita godendo degli spettacolari panorami dalle vette dolomitiche, ambite e sognate ogni giorno nel conforto degli arroventati tramonti sul mare di fronte alla mia casa. Ma quando ho visto questi scenari mi sono sentito sopraffatto da una schiacciante sensazione di rispetto e di partecipazione, del tutto nuova e commovente.